giovedì, maggio 1

INTERVISTA - Alberto Minnella

Intervista a cura di Massimo Minimo

Diamo il benvenuto sulle pagine di ThrillerPages ad Alberto Minnella, esponente della cosiddetta “New Wawe” siracusana.

D)Ciao Alberto, come nasce la “New Wave” siracusana?
R) In realtà non c’è stato nessun parto, nessuna nascita. È stato un caso che negli ultimi due o tre anni ci siano stati tanti autori siracusani armati di un romanzo, pronti a combattere i cattivi. Di recente Repubblica ha parlato di New Wave siracusana e come capita nei fumetti, una volta che la stampa ti affibbia un soprannome tu te lo tieni. 

D) Quali i motivi del fiorire di così tanti scrittori?
R) Questo non so davvero spiegarlo. Durante una presentazione corale, in occasione dell’Ortigia Film Festival, insieme agli scrittori Stefano Amato, Daniele Zito e Angelo Orlando Meloni (tutti e tre bravissimi e se non avete ancora comprato i loro romanzi fatelo perché ne vale davvero la pena, come per gli altri romanzi degli scrittori siracusani come Veronica Tomassini e Luca Raimondi, chiedo perdono a quelli che sto sicuramente dimenticando) mi è stata posta una domanda simile; a quel punto ho simulato un infarto schivando la risposta. Posso rifarlo se vuoi.

D) A cos’è dovuto il nome di “new matalotta”?
R) La matalotta è, in realtà, un modo molto diffuso in Sicilia di cucinare il pesce. Viene dal francese “à la matelote” che vuol dire proprio pesce stufato. È una sorta di brodo. Quale migliore metafora per dare l’idea di questa fioritura di romanzi siracusani se non quella di un brodo primordiale, in una ricetta rivista (e qui new) frutto dell’unicità di raccontare singolarmente la nostra terra?

D) Voi giovani autori siracusani usate un linguaggio non contaminato dal dialetto. Una scelta ben precisa. Perché? 
R) Su ‘giovani’ sono sicuro che molti dei miei colleghi siracusani si stanno dando alla pazza gioia. Tornando al discorso dialettale. Nel mio romanzo ho usato, quando l’ho ritenuto opportuno, dialetto o forme dialettali. Nei dialoghi, la costruzione della frase è sempre contaminata da alcuni vizi grammaticali tipici della Sicilia. L’ordine degli elementi della frase, il modo e il tempo di un verbo o alcuni modi di dire propri della mia terra. Negli altri romanzi questa ricerca al dialetto come carta d’identità siculo-siracusana si sente pochissimo o addirittura non è presente, ma sono convinto che questa sia davvero la forza. Credo, ma questa è solo una mia opinione, che sia una naturale conseguenza dell’estinzione del “discorrere in dialetto”. Fra noi ‘giovani’ lo si parla di rado; spesso solo per colorire certe espressioni, ma è raro trovare qualcuno che parli davvero il siracusano. Io non lo sono nemmeno, quindi sono parecchio giustificato (si noti che qui l’intervistato ha sorriso più del dovuto). 

D) La vostra è una città di provincia non troppo grande, eppure sembra essere un luogo dalle mille contraddizioni. Ce ne vuoi parlare e magari provare a spiegarne le ragioni?
R) Per le grandi contraddizioni di questa terra, che si chiami Sicilia o Siracusa, bisognerebbe scomodare Pirandello, ma credo che questa sia l’ora della sua passeggiata, quindi dovrò fare da solo. Qualche tempo fa, in un articolo, paragonai l’impossibilità di descrivere le contraddizioni della Sicilia con l’impossibilità di fare lo stesso con la tromba di Miles Davis. Rimango ancora della stessa opinione. La realtà è che quest’isola è un blocco intero di assi e contrappesi che reggono insieme per un motivo ancora ignoto. 

D) Passando in maniera specifica al tuo romanzo, Il gioco delle sette pietre (Fratelli Frilli Editori) ruota tutto intorno ad Ortigia. Cos’ha di particolare questo luogo?
R) Al di là del fascino storico e architettonico, dei suoi fasti passati, direi molto poco, se non per la particolarissima Fonte Aretusa, in cui acqua dolce e salata del Porto Grande non si mischiano, e per la scioccante bellezza stratosferica del mare siracusano. Ma la sua particolarità, quella vera che esiste solo qui e da nessun’altra parte del mondo, sta negli abitanti. Ed ecco che Ortigia è Ortigia grazie ai suoi ortigiani, ai siracusani che l’abbelliscono o l’imbruttiscono a seconda di come la trattano. Per il mio romanzo ho scelto proprio questi due grandi titani come veri protagonisti e non come mero sfondo alla favola nera di Portanova. 

D) Il protagonista è, appunto, il commissario Paolo Portanova. Raccontaci qualcosa di lui. 
R) Paolo Portanova è la creatura che si ribella al padrone. È quello che io chiamo “effetto Frankenstein”. L’avevo pensato in un modo totalmente diverso, poi, con l’andare avanti della pagine ne è venuto fuori un omone di un metro e novanta e che si ammazza di sigari e di cibo, anche se quest’ultima cosa la fa per noia. Ecco, la noia è il suo acerrimo nemico, una noia diversa da quella holmesiana; la sua è una noia siciliana, che ha a che fare con la sua natura di siculo e non strettamente legata alla mancanza di dinamismo professionale. In più, si ritrova a dover decifrare il popolo siracusano, a lui estraneo essendo catanese. Ama la musica americana e posso affermare che gli anni sessanta sono proprio perfetti per lui. Ci sguazza, ecco. Cammina molto per i vicoli di Ortigia, perché così può fumare senza che nessuno gli rompa le scatole per la puzza dei suoi Toscani, ma aiuta pure i lettori nell’accompagnarli in quest’isolotto meraviglioso. Detesta le armi, per un motivo ben preciso che spiego nel libro e che non farò qui, e questo lo avvicina alle mie letture adolescenziali, come Dylan Dog; solo che Portanova non ha un Groucho pronto a difenderlo. Anzi, più di una volta se l’è vista brutta e senza l’aiuto di nessuno.

D) Nel crearlo ti sei ispirato a qualche personaggio letterario già esistente o è tutta farina del tuo sacco?
R) Di ispirazioni ne ho avute molte, come il commissario Boris Giuliano e il caso del commissario Tandoj di Agrigento. Ho fatto un po’ un collage fantasioso di alcune cose, come il suo pelo rosso, un omaggio al mio cane scomparso un anno fa, ma come ho detto prima, i miei piani sono andati in fumo e la creatura si è ribellata al padrone, prendendo possesso di buona parte delle sue caratteristiche. Portanova è fra quei personaggi letterari che hanno il dono del libero arbitrio. 

D) Nel finale del libro si avverte la presenza ingombrante della mafia. Te la senti di dire qualcosa su questo fenomeno che, come ormai acclarato, non caratterizza solo la Sicilia? 
R) Non sono un esperto della questione mafiosa e non mi sento di rispondere se non con le parole di Peppino Impastato: «La mafia è una montagna di merda». La questione del fenomeno mafioso, ormai dilagatosi a macchia d’olio in tutto il mondo, è piuttosto delicata e richiederebbe una mia lunga riflessione e, di conseguenza, centoquaranta pagine di risposta. Una cosa, però, la dico. Negli ultimi tempi sento dire che la mafia, quella vera, è quella dello Stato. Mi permetto di dissentire perché la mafia, quella vera, è intrufolata nello Stato. È un innesto riuscitissimo. Lo Stato in sé non è mafioso, lo sono alcuni (pochi, tanti, troppi) che operano con la mano sporca del sangue dei loro fratelli e con quello imbrattano il paese intero. È bene scindere le due cose, anche se spesso il nemico ha la tutina del supereroe. Ma adesso simulo un altro infarto così da passare alla prossima domanda...

D) Stai già lavorando al prossimo libro? Puoi anticiparci qualcosa?
R) Sul prossimo libro non voglio svelare nulla sennonché fra poco lo ultimerò e poi lo girerò all’editore che deciderà se sarà il caso o meno di aggiungere un altro libro alla lista dei romanzi di cui la letteratura italiana non sentiva il bisogno di avere.  

D) Da ultimo, scegli un brano musicale con cui vorresti che fosse accompagnata la lettura di quest’intervista.
R) Sono discolo come Portanova, quindi ne sceglierò due. Dopo averlo citato, mi pare il minimo scegliere per l’inizio dell’intervista Blue in green di Miles Davis e di quel geniaccio di Bill Evans e per il finale scelgo Orgullecida di Compay Segundo, accompagnando tutto con un bicchiere di birra rossa ghiacciata.


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