Comincia tra la folla impazzita il film di Carlo Lizzani, girato a tempo di record nel 1968 per ricostruire un celebre fatto di cronaca avvenuto solo pochi mesi prima. Di Milano si vede una prospettiva dall’alto, un uomo in fuga e una torma di cittadini infuriati che invocano il linciaggio. A stento le forze di polizia riescono a sottrarlo all’ira del popolo, caricandolo in auto. Una voce fuori campo si domanda cosa ha potuto scatenare a tal punto l’odio dei cittadini. Banditi a Milano inizia come un ‘mondo-movie’ di quelli che fingevano di riproporre la realtà ma erano dichiaratamente finti. Lo si vede nelle sequenze iniziali in cui un commissario-divo con tanto di bocchino (Tomas Milian che un po’ si atteggia a Calabresi) finge di parlare alle telecamere ma svela che la ricostruzione della realtà criminale milanese è riproposta in maniera fittizia. Si vede persino la ricostruzione di un falso scippo. Non sembri inutile la premessa. È un quadro della Milano degli anni ‘60 ormai proiettata verso un’epoca di cambiamento, di subbuglio sociale. Cinematograficamente parlando siamo agli antesignani del ‘ poliziottesco’ che nascerà solo nel 1972, ma che nel costume ha già messo radici. Qualcosa è cambiato nella malavita come dice il ‘bel lader’ intervistato che rimpiange i tempi della ‘ligera’, la mala vecchia di Milano in cui i rapinatori erano gentlemen. Adesso, dice, leggono i fumetti e sparano. Insulsa ma emblematica impressione del sentire di quegli anni.
Si susseguono poi gustosi quadretti realizzati in uno stile che sta tra i fotoromanzi e il fumetto appunto. In una sequenza di racket la violenza è inframmezzata da onomatopee e vignette prese da Nembo Kid. La storia di una ‘mondana’(Margaret Lee) brutalmente adescata con la promessa di una facile carriera nel mondo dello spettacolo e poi data alle fiamme con il commento musicale di ‘Voglio la pelle nera’ di Nino Ferrer. Siamo profondamente inseriti nelle atmosfere più nere di Scerbanenco. Dopo un’introduzione frammentata ma non frammentaria che ci mostra come Milano sia diventata ‘una piccola Chicago’ la storia riprende in maniera più lineare dall’interrogatorio del bandito arrestato che, in lacrime, cede, e fa i nomi dei complici permettendone la cattura. Da qui riprende la storia della banda Cavallero che, seppure con altri nomi, ripercorre con grande precisione la cronaca. Forse uno dei migliori film di rapina italiani, emozionante come il più adrenalinico dei poliziotteschi ma non schivo di connotazioni sociali benché sempre venato da sfumature grottesche. Basti pensare al breve cameo di Carla Gravina che recita la parte della ninfomane che, dalla Svizzera addirittura, chiama il commissario Milian evocando figure di banditi stupratori e chiedendo la protezione di un uomo ‘forte e virile’. La storia però procede rapida ed efficace. È la vicenda della banda degli ‘invisibili’, rapinatori che misero a segno nel giro di cinque anni 23 colpi di cui 17 rapine in banca tra Torino e Milano, sperimentando anche la tecnica della tripletta che si avvaleva degli allarmi degli istituti razziati per creare diversivi. Mattatore assoluto diventa Gian Maria Volontè nei panni di Piero, il capobanda, detto il ‘Cavallerissimo’ dalle cronache dei tempi. Ex comunista, ex proletario che, come dice lui stesso ‘si è elevato dalle masse’ e la sua rivoluzione la fa subito. Istrionico, megalomane, crudele e abilissimo manipolatore, il Cavellerissimo vive con la madre e la moglie, legge Camus , in casa sta in vestaglia e non lavora. O meglio, si crea una finta attività con tanto di uffici e segretaria, che corteggia ma alla quale impone, per la forma, di non portare la minigonna. Don Backy è il suo secondo, fedelissimo e un po’ scemo, pronto a seguirlo all’inferno. Rovoletto, il driver, che sarà il primo a farsi beccare, è un ragazzone che canta nel coro della parrocchia ma è imbattibile al volante. Al gruppo per l’ultima rapina si aggiunge anche un giovanissimo rampante, sullo schermo con il viso di Ray Lovelock, interprete di quella rabbia giovane che sarà poi portata sullo schermo in mille occasioni nei polizieschi degli anni successivi. L’ultima parte è la ricostruzione fedele e spettacolare al tempo stesso della rapina del 27 settembre in largo Zandonai. La fuga, gli allarmi, l’incredibile sparatoria con mitra da guerra per le vie di Milano. Ventidue feriti e quattro morti che sapientemente Lizzani porta in scena durante le fasi preparatorie con un grandissimo senso della drammatizzazione. Milano è lì, credibilissimo sfondo per un ‘nero criminale’ e l’inseguimento non ha nulla da invidiare alle migliori pellicole di Umberto Lenzi o Stelvio Massi. E qui si capisce l’interrogativo iniziale. Malgrado tutto ciò che ci è stato mostrato in precedenza sulla crescita esponenziale della mala, Milano non aveva ancora sperimentato una violenza così per le strade. Le vittime della brutalità dei nuovi banditi che nelle sequenze iniziali comunque sono sempre gente del giro (proprietari di night, prostitute, frequentatori di bische) ora sono semplici passanti, onesti lavoratori, giovani e padri di famiglia colpiti come a caso. I tempi del terrorismo e delle bombe sono vicinissimi e nell’aria se ne sentono le avvisaglie. Forse un po’ fuori registro lo spiegamento di forze messo in campo per braccare Piero e il suo secondo rimasti gli ultimi banditi in fuga ma, in realtà, la caccia fu davvero imponente. Come sempre però la realtà supera la fantasia e vedere quell’esercito di carabinieri che si muove per le campagne piemontesi in stato di guerra ha un effetto scenico vagamente surreale. Catturato, il Cavallerissimo sfoggia una faccia da schiaffi, fa il divo davanti alla tv, diventa realmente ‘la bestia che ride’ come lo definirono i giornali. Rispetto al precedente Svegliati e uccidi (non fedelissima ricostruzione della carriera di Luciano Lutring, del ‘noi’ milanesi conosciamo bene la parabola criminale decisamente meno violenta di quella favoleggiata ) Lizzani domina meglio la materia, adotta uno stile nervoso, fumettistico aderente ai tempi. Ha già tutti gli elementi che permetteranno poi al filone ‘poliziottesco’ di intraprendere una via a volte esagerata ma graditissima al pubblico italiano.
Si susseguono poi gustosi quadretti realizzati in uno stile che sta tra i fotoromanzi e il fumetto appunto. In una sequenza di racket la violenza è inframmezzata da onomatopee e vignette prese da Nembo Kid. La storia di una ‘mondana’(Margaret Lee) brutalmente adescata con la promessa di una facile carriera nel mondo dello spettacolo e poi data alle fiamme con il commento musicale di ‘Voglio la pelle nera’ di Nino Ferrer. Siamo profondamente inseriti nelle atmosfere più nere di Scerbanenco. Dopo un’introduzione frammentata ma non frammentaria che ci mostra come Milano sia diventata ‘una piccola Chicago’ la storia riprende in maniera più lineare dall’interrogatorio del bandito arrestato che, in lacrime, cede, e fa i nomi dei complici permettendone la cattura. Da qui riprende la storia della banda Cavallero che, seppure con altri nomi, ripercorre con grande precisione la cronaca. Forse uno dei migliori film di rapina italiani, emozionante come il più adrenalinico dei poliziotteschi ma non schivo di connotazioni sociali benché sempre venato da sfumature grottesche. Basti pensare al breve cameo di Carla Gravina che recita la parte della ninfomane che, dalla Svizzera addirittura, chiama il commissario Milian evocando figure di banditi stupratori e chiedendo la protezione di un uomo ‘forte e virile’. La storia però procede rapida ed efficace. È la vicenda della banda degli ‘invisibili’, rapinatori che misero a segno nel giro di cinque anni 23 colpi di cui 17 rapine in banca tra Torino e Milano, sperimentando anche la tecnica della tripletta che si avvaleva degli allarmi degli istituti razziati per creare diversivi. Mattatore assoluto diventa Gian Maria Volontè nei panni di Piero, il capobanda, detto il ‘Cavallerissimo’ dalle cronache dei tempi. Ex comunista, ex proletario che, come dice lui stesso ‘si è elevato dalle masse’ e la sua rivoluzione la fa subito. Istrionico, megalomane, crudele e abilissimo manipolatore, il Cavellerissimo vive con la madre e la moglie, legge Camus , in casa sta in vestaglia e non lavora. O meglio, si crea una finta attività con tanto di uffici e segretaria, che corteggia ma alla quale impone, per la forma, di non portare la minigonna. Don Backy è il suo secondo, fedelissimo e un po’ scemo, pronto a seguirlo all’inferno. Rovoletto, il driver, che sarà il primo a farsi beccare, è un ragazzone che canta nel coro della parrocchia ma è imbattibile al volante. Al gruppo per l’ultima rapina si aggiunge anche un giovanissimo rampante, sullo schermo con il viso di Ray Lovelock, interprete di quella rabbia giovane che sarà poi portata sullo schermo in mille occasioni nei polizieschi degli anni successivi. L’ultima parte è la ricostruzione fedele e spettacolare al tempo stesso della rapina del 27 settembre in largo Zandonai. La fuga, gli allarmi, l’incredibile sparatoria con mitra da guerra per le vie di Milano. Ventidue feriti e quattro morti che sapientemente Lizzani porta in scena durante le fasi preparatorie con un grandissimo senso della drammatizzazione. Milano è lì, credibilissimo sfondo per un ‘nero criminale’ e l’inseguimento non ha nulla da invidiare alle migliori pellicole di Umberto Lenzi o Stelvio Massi. E qui si capisce l’interrogativo iniziale. Malgrado tutto ciò che ci è stato mostrato in precedenza sulla crescita esponenziale della mala, Milano non aveva ancora sperimentato una violenza così per le strade. Le vittime della brutalità dei nuovi banditi che nelle sequenze iniziali comunque sono sempre gente del giro (proprietari di night, prostitute, frequentatori di bische) ora sono semplici passanti, onesti lavoratori, giovani e padri di famiglia colpiti come a caso. I tempi del terrorismo e delle bombe sono vicinissimi e nell’aria se ne sentono le avvisaglie. Forse un po’ fuori registro lo spiegamento di forze messo in campo per braccare Piero e il suo secondo rimasti gli ultimi banditi in fuga ma, in realtà, la caccia fu davvero imponente. Come sempre però la realtà supera la fantasia e vedere quell’esercito di carabinieri che si muove per le campagne piemontesi in stato di guerra ha un effetto scenico vagamente surreale. Catturato, il Cavallerissimo sfoggia una faccia da schiaffi, fa il divo davanti alla tv, diventa realmente ‘la bestia che ride’ come lo definirono i giornali. Rispetto al precedente Svegliati e uccidi (non fedelissima ricostruzione della carriera di Luciano Lutring, del ‘noi’ milanesi conosciamo bene la parabola criminale decisamente meno violenta di quella favoleggiata ) Lizzani domina meglio la materia, adotta uno stile nervoso, fumettistico aderente ai tempi. Ha già tutti gli elementi che permetteranno poi al filone ‘poliziottesco’ di intraprendere una via a volte esagerata ma graditissima al pubblico italiano.
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