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Accadde una mattina di maggio.
Non avevo ancora elaborato appieno il lutto del risveglio, che un pelo eburneo di luce umida si calò dalle piaghe della persiana fotocìda mal richiusa, e cadde sulle mie occhiaie come una sbavatura di rimmel di stanchezza.
All'offensiva seguì un rapsodico calpestio di ciglia che mi strappò dallo stato vigile, rispedendomi senza appello al mittente sonno dei giusti.
Rimasi stagnante nel letto ancora un'ora, frollo com'ero di ignavia, estradato in quel di Morfeo con l'addebito di compiuta giacenza.
Riaddormentandomi, la realtà si dissolse in uno sciame di volti dagli occhi opalescenti e dalle bocche abrase, fosche epifanie che, una dietro l'altra, spuntavano dai tumuli stepposi della mia coscienza.
(Il passato era in agguato negli anfratti della mia camera da letto e negli scricchiolii che, notte e giorno, ci si perpetuavano dentro...)
Riconobbi alcune delle vittime che avevo mietuto a colpi di dimenticatoio, e che ora stavano riemergendo per venire a prendermi.
Avevo bevuto molto quella notte, troppi mojito, ne sono certo, tanti che forse non avrei nemmeno dovuto guidare. Ma non m’importava. Erano giorni in cui sentivo di avere il mondo in mano e pensavo di essere un vincente. Quando mi accorsi che dietro la curva il traffico era bloccato, naturalmente era troppo tardi per frenare, e aggrappato allo sterzo tentai comunque di evitare l’ostacolo, ma anche così l’urto fu talmente forte che vidi lo sportello dell’altra macchina saettare davanti a me, rotolando sull’asfalto per diversi metri prima di fermarsi al lato della carreggiata. Quando guardai nello specchietto retrovisore notai che stavano soccorrendo una donna anziana. Indossava una pelliccia tinta miele, forse di visone. Sapevo che non potevo farci nulla, del resto mi pareva che stesse abbastanza bene, e poi non ero mica stato io a investirla: avevo solo divelto lo sportello. Colpa sua. Qualcun altro al posto mio forse si sarebbe fermato, avrebbe cercato di tornare indietro, magari per offrire il suo aiuto. Ma io non feci nessuna di queste cose. Ingranai la marcia, e ripartii piano, andandomene per i fatti miei. Poi accelerai, e cominciai a correre sempre più avanti. Credo fu un riflesso incondizionato, come quello delle bestie che si sentono braccate. Non volevo mica passare dei guai per qualcosa di cui non avevo la minima responsabilità. Pigiavo sul pedale dell’acceleratore come se da quella pressione potesse dipendere la mia stessa vita. Così accadde che al semaforo successivo tagliai la strada a un motociclista. Quello cadde davanti a me, e la moto, scivolando, andò a fermarsi contro le ruote di un autoarticolato. Non lo investii per un soffio, tanto che, quando si alzò zoppicando, colpì con un pugno il cofano della mia vettura. Attraversò per andare a recuperare la motocicletta, trascinando una gamba, ancora mezzo girato a urlarmi contro. È per questo, forse, che fu travolto da un'automobile lanciatissima in senso contrario. Io ripartii. Non era stata colpa mia. Dopo la caduta si era rialzato e stava camminando, stava così bene da insultarmi, addirittura. Ormai ne avevo abbastanza di pensare a storie e a complicazioni, volevo solo tornarmene a casa ed ero quasi arrivato, quando giunsi sul rettilineo. Vidi che nel bel mezzo della carreggiata c’era una donna che stava attraversando sulle strisce, spingendo davanti a sé una carrozzina, come se avesse tutto il tempo del mondo. Non avevo alcuna voglia di rallentare, anche perché perfino da lì si capiva che aveva tutto lo spazio che voleva per passare. Ma quella si spaventò e arretrò di colpo, proprio quando dall’altro senso stava arrivando un mezzo della nettezza urbana. Lei scartò di lato rovesciando la carrozzina sull’asfalto. Io andai dritto per la mia strada, senza nemmeno voltarmi indietro. Ero stufo di avere casini quando tutto quello che volevo era solo infilarmi dentro a un letto.
Ci misi un tempo assai lungo prima di realizzare che da quella notte sotto casa mia spesso stazionavano tre persone che non avevo mai visto. Un uomo con il casco, una signora anziana che indossava una pelliccia nonostante fossimo a maggio, e una giovane donna con una carrozzina. Non riuscivo mai a inquadrare i loro visi, però riuscivo lo stesso a percepire quanto la loro presenza fosse inquietante. Sembravano piantoni messi di guardia a una garitta invisibile. Pareva non volessero andarsene mai, non mangiavano, non dormivano, non parlavano: stavano lì e basta.
La notte che presi il coraggio a quattro mani, e mi avvicinai a loro per parlare, cadde un silenzio raccapricciante. Il reverendo cielo si intabarrò in un severo abito talare; scese un buio imperscrutabile, la luna cessò di trarre dai comignoli riflessi esangui, e di colpo si spense. Cominciò a sferzare una lieve brezza salmastra da ponente — nonostante l'assenza del mare — che favorì dentro di me l'acuirsi del panico. Che mai è questo? mi interrogai; sentivo gli occhi tremolare come due candele in mezzo a una corrente d'aria. Quelli alzarono la testa di scatto per guardarmi, e dalle loro bocche aperte fuoriuscì solo un soffio mesmerico di zolfo che mi avvolse le narici. Riuscii a malapena a vedere che non avevano facce, bensì ossa consumate senza lineamenti, da cui emanava un puzzo mefitico, mentre lugubri gemiti sgorgavano dritti dalle loro gole.
Pensando che per me fosse la fine, mossi il convoglio dei muscoli verso lo stipite contornato di luce e mi sprangai dentro casa, quando le nubi alabastrine si affaccendavano come uno stuolo di ancelle intente a bendare Dio.
All’improvviso tutte le porte si aprirono simultaneamente, producendo un frastuono agghiacciante. Mi svegliai di soprassalto, madido di sudore, prigioniero di uno shanghai di nervi tesi. Avevo brividi dappertutto. Presi percezione del mio corpo intrappolato tra le lenzuola tentacolari che prosperavano dal sottosuolo della branda. Mi guardai intorno, spinsi la punta della lingua nella guancia destra per sondare la mia fisionomia: c'ero ancora. Tirai un lungo sospiro di sollievo, si era trattato solo di un incubo. D'istinto, però, mi segnai la fronte.
Da quel giorno non sono più uscito. Non posso sopportare il pensiero che loro siano ancora là fuori, fermi ad aspettare me. E so che ci sono perché ne sento ancora l'odore, ogni notte vedo le loro sagome che si insinuano oltre la soglia e s’infilano sotto al mio letto. Sono condannato a vivere sogni orribili, svegliandomi al mattino in preda a un penoso senso di impotenza, senza mai elaborare appieno il lutto del risveglio, con peli eburnei di luce umida che calano dalle piaghe della persiana gracidante mal richiusa, e cadono sulle mie occhiaie come sbavature di rimmel di stanchezza. Segue sempre un rapsodico calpestio di ciglia che mi strappa dallo stato vigile, rispedendomi senza appello al mittente sonno dei giusti.
Rimango allora stagnante nel letto, frollo di ignavia, estradato in quel di Morfeo con l'implacabile addebito di una compiuta giacenza.
Riaddormentandomi, poi, la realtà si dissolve in uno sciame di volti dagli occhi opalescenti e dalle bocche abrase, fosche epifanie che, una dietro l'altra, spuntano dai tumuli stepposi della mia coscienza, eruttando miasmi mefitici e rivoli di zolfo. Il passato torna in agguato negli anfratti della mia camera da letto e, negli scricchiolii che, notte e giorno, ci si perpetuano dentro. Riconosco alcune delle vittime che ho mietuto a colpi di dimenticatoio e che ora riemergono per venire a prendermi.
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Musiche Fotografie e testo a cura di Giuseppe Foderaro
www.giuseppefoderaro.com
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Bellissimo racconto, si sente sulla pelle con brividi e graffi. Ma arriva anche al cuore che pulsa rapido e alla mente che si perde.
*****/5
Questa volta hai scritto più con la testa che con la pancia, lavorando (bene) sulle parole e sperimentando diversa cifra stilistica. Io aspetto di rivedere Sauro, ma non è detto che debba arrivare percorrendo le solite (già battute) strade.
Bello. Decisamente "rabbrividevole" e inquietante. Scritto bene, ritmo giusto, forse un po' elaborato nella forma all'inizio (e alla fine), ma ci sta tutto. Ebbravo Giù!
Tutto è eccellete. Musiche e testi. Complimenti.
Rabbrividisco e m'inchino a cotanta Bravura
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