lunedì, novembre 7

Racconti - IO VOLEVO RESTARE di Francesca Scotti

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Mi svegliai in un posto dove non ero mai stata. Di paesi ne avevo cambiati molti e ormai dipendevo da quella sensazione estraniante che mi avvolgeva appena aperti gli occhi: niente mi era familiare e alcune volte, nemmeno io, ero certa di chi e che cosa fossi.
Ma ciò che provai quella mattina non assomigliava a nulla di quanto avevo già vissuto.

*

Quando cominciavo a sentirmi legata a un luogo significava che era arrivato il momento di fare ciò che dovevo e partire. Era quella la mia regola.
A Okinawa però avevo incontrato Hiro e ogni cosa era andata diversamente.
Ci eravamo incrociati all'alba, lungo una via costellata da bidoni dell'immondizia e ventole dei condizionatori che fiatavano il loro alito caldo e odoroso di cibo. Io avevo preso casa in quella zona. La affittavano per pochi yen. Giusto lo spazio per un materasso, un wc e una doccia come quelle delle navi. Non era fatiscente, solo terribilmente triste. Ma tanto mi sarebbe servita per un breve periodo.
Hiro mi aveva colpita con un sacchetto della spazzatura: ovviamente non lo aveva fatto di proposito. Lo aveva lanciato dal retro del locale dove lavorava, un sordido bar con le tende unte e molta gente ubriaca.
Era tarda notte e stavo rientrando dal mio girovagare. Mi muovevo con il buio perché solo in sua compagnia ero al sicuro. I miei bioritmi - ormai da più di un anno - erano capovolti. Persino la mia pelle cominciava a risentirne. Me ne accorsi proprio in quel paese dove tutti erano così abbronzati. Sotto la doccia notai che la schiuma del sapone non era di un colore tanto diverso da me; la lavavo via dal seno, mi accarezzavo le braccia: tutto era bianco.
Hiro quella notte non mi vide arrivare nell'oscurità del viottolo, così, stando in piedi sul gradino della porta sul retro lanciò i rifiuti mirando al bidone. Ma il mio corpo intercettò quella massa nera.
Non mi fece male ma la plastica si lacerò, rovesciandomi addosso resti di cibo.
Imbarazzata raccolsi le sue scuse, era davvero affranto.
"Entri la prego, l'aiuto a ripulirsi. Sono desolato mi lasci fare qualcosa, le offro dell'awamori, qui serviamo il liquore di riso migliore dell'isola."
Ma io mi allontanai svelta, senza dargli il tempo di memorizzare i miei lineamenti, la mia forma. Anche se a me bastarono quei pochi istanti per imprimermi i suoi.

*

Trascorsi alcuni giorni nel mio piccolo appartamento a pensare a lui, a come avvicinarlo di nuovo. Non riuscivo a fare altri programmi.
Mi piaceva come nessun altro uomo. Forse, per lui, avrei persino potuto fermarmi, smettere di vagare da un mondo all'altro e di rispettare le mie regole.

*

Quando entrai nel locale la notte era appena cominciata.
Le luci erano basse e dense, l'aria odorava di alcool metabolizzato dai corpi.
Mi sedetti sullo sgabello di legno e una scheggia mi ruppe le calze. Indossavo il mio unico vestito, i miei unici collant e ora si erano rovinati.
Avevo sentito che gli altri clienti, alcuni già allegri e appoggiati mollemente al bancone appiccicoso, lo chiamavano Hiro-san.
Così lo feci lo stesso e lui mi raggiunse.
Un gruppo di suonatori di shamisen si esibiva sul palco ma non li guardavo. Quando Hiro mi fu davanti ordinai, anzi, gli chiesi di essere lui a scegliere per me.
Mi portò dei bocconcini di manzo con una salsa e del liquore cristallino. Lo spillava direttamente da un otre di terracotta. Sembrava più un solvente che una bevanda.
Masticai la carne trattenendo le lacrime da tanto era piccante.
Lui, chiarente, non mi aveva riconosciuta.
Continuai a bere e mangiare sperando si accorgesse di me, almeno perché ero l'unica donna presente.
Sentii una mano tiepida scivolarmi lungo la coscia ma mi bastò incrociare gli occhi ubriachi dell’uomo per farlo desistere. Hiro però, anche se si muoveva svelto dietro bancone, aveva notato quel contatto spiacevole.
"Signorina è certa di voler restare ancora qui?"
In effetti l'atmosfera si stava alterando, complice il suono secco degli shamsen che si mescolava a quello acido degli strumenti elettrici. Percussioni e alcol rendevano l’ambiente quasi tribale. I piccoli mostri di terracotta blu, con i denti inferiori sporgenti e gli occhi grossi, che popolavano gli scaffali del locale, sembravano trarne energia.
Ma io restai, volevo restare.
Non riuscii a dirglielo e annuii soltanto. Gli ordinai dell'altro awamori e ancora qualcosa da mangiare, non avevo fame ma ripulii il piatto. Lui, dopo aver sparecchiato mi guardò negli occhi. Stava intuendo qualcosa di me, lo sentii chiaramente. Poi li abbassò. Allora sorrisi e lo fece anche lui.
Si allontanò per riapparire quasi subito e portarmi una lattina di birra con dentro un ramoscello dalle bacche rosse.
"Lei ha bisogno di qualcosa di bello questa sera." Mi disse.
La sua bocca si stirò in un sorriso. Non aveva denti belli ma quel disordine che scoprii fra le sue labbra lo rese indifeso. Poi tornò dagli altri clienti.
Non sarebbe potuto restare con me il resto della serata, lo capivo. In realtà era anche molto tardi.
"Ti chiederei il conto, per oggi mi fermo qui."
Me lo portò subito, scribacchiato su un taccuino.
Misi la mano in tasca per pagare ma non trovai il portafogli. Me lo avevano rubato. Avvampai dall'imbarazzo. Cercai subito nella tasca intera, tremando. Il portafogli non era nemmeno lì ma il resto della mia vita, per fortuna, non era stato violato.
Vergognandomi per la figura che avrei fatto mi decisi ad alzare lo sguardo e a incrociate il suo. "Scusami, sono senza contanti e me ne sono accorta ora. Ma abito qui accanto, esco un istante a prenderli e arrivo. Non preoccuparti che torno.”
Lui mi guardò e sorrise di nuovo. “La strada la conosci.”

*

Uscii stretta nella mia giacca, temendo che lui notasse quella calza smagliata.
Andai dritta verso il 7eleven che si trovava nella via accanto, entrai. Un commesso allampanato stava sistemando il bancone. Mi avvicinai e prima che i nostri occhi si incrociassero gli sparai in fronte.
Portava la divisa ed era alto, ricordo solo questo. Mi sporsi verso la cassa, lui era a terra in una pozza densa che si allargava inarrestabile.
Presi 10.000 yen e uscii.
Con passo calmo mi diressi verso il locale, Hiro mi stava aspettando, ne ero certa.
Purtroppo non era solo.
Non opposi resistenza, seguii i poliziotti. Finalmente erano riusciti ad avermi.
Hiro teneva gli occhi bassi, non sorrideva più. Ripensai ai suoi denti e questa volta li trovai disgustosi e malefici.
“Scusami, avevo bisogno di soldi, sono stufo di lavorare in questo posto.” Mi disse mentre mi portavano fuori.
Lo aveva fatto solo per la taglia.

*

Svegliarsi in prigione è angosciante, ho paura. E non riesco a respirare. Ogni notte mi addormento e spero di aprire gli occhi in un luogo nuovo, diverso. O almeno di sognarlo.




Musiche Fotografie e testo a cura di Francesca Scotti
Sito di Francesca Scotti: www.qualcosadisimile.it

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1 Lascia un commento:

luisa cora ha detto...

Bella atmosfera in questo raccontoe finale inaspettato Complimenti!

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