mercoledì, dicembre 8

Intervista incrociata - Fiume Pagano vs Veritas

Roma ai giorni nostri, un febbraio di nebbia e gelo. Dal Tevere affiorano alcuni cadaveri. Suicidi forse, ma tutti hanno marchiate a fuoco alcune lettere sul petto, indossano una tunica bianca e sono stati drogati d’assenzio. Unico testimone degli eventi è un solitario clochard che tenta di lanciare l’allarme sulla trama di morte che aleggia nelle notti romane. Intanto qualcuno in segreto veglia sul riacceso fuoco di Vesta, tornata alla vita dopo 1618 anni. Chi è la misteriosa figura velata che accompagna i condannati al sacrificio fino al tuffo nel fiume sacro di Roma? Cosa vogliono dire le lettere marchiate a fuoco sui loro petti? Vesta, la dea primigenia, vuole riappropriarsi della città che le fu strappata dall’arroganza del papato? La Città Eterna con la sua storia, la sua bellezza, con i suoi costumi ed i suoi personaggi è teatro ancora una volta di una complessa, coinvolgente vicenda.
Un giorno come tanti altri, quello, per il vice questore Michele Arlia, sulla cinquantina, napoletano trapiantato nella capitale e, soprattutto, decisamente lontano dallo stereotipo del poliziotto atletico e senza cervello. Come ogni mattina è alla sua scrivania, con la pipa in bocca, spenta, purtroppo, la giacca già macchiata alle dieci e il cigolio della sedia a ricordargli che è ora di perdere almeno uno dei suoi centoquaranta chili. E poi, quella maledetta telefonata: a San Clemente una turista americana ha denunciato la scomparsa del marito durante una visita guidata e il caso ricade sotto la giurisdizione di Arlia. Più scocciato all'idea di dover lasciare le comodità dell'ufficio che preoccupato dal caso - ordinaria amministrazione - il vice questore raggiunge il luogo della sparizione. Ad attenderlo, un'atroce scoperta: all'interno della nicchia ricavata in una parete giace l'uomo scomparso. Il corpo pare essere stato oggetto di un sadico rituale: evirato, con una ferita profonda sotto la scapola destra, le narici completamente ustionate. Per Arlia sarà il primo di una serie di omicidi che prevedono tutti questa stessa procedura. Solo la sua passione per la storia dell'arte e per l'archeologia lo porterà a capire che i delitti sono legati all'antico culto di Mithra e che i luoghi di sepoltura costituiscono un disegno ben preciso che collega i sotterranei romani. La sua è una lotta contro il tempo e contro un assassino che pare volerlo coinvolgere in un gioco perverso.


Patrizia:
E' stato un incontro direi disarmante e suggestivo, oltreché premonitore. Era un giorno di luglio e su Roma imperversava una cappa umida e appiccicosa. Ma la cosa non mi toccava, visto che mi trovavo a svariati metri sotto il manto stradale: complice il factotum della chiesa di San Clemente, stavo percorrendo uno dei cunicoli che si snoda dalla basilica nel ventre della Capitale. Il tutto nel silenzio più assordante. Improvvisamente sentimmo un bisbigliare. Avvicinandoci potemmo sentire alcune frasi: "Ti dico che è meglio far trovare qui i corpi" "E io ti dico di no. Vuoi mettere il fascino dei ponti di Roma?" "Ma sei scema? E che dici del fascino di questi sotterranei?". Lì per lì pensai alla progettazione di una serie di omicidi reali. Poi sentii una frase: "Dammi retta. Per un libro sui sacrifici a Vesta, il Tevere è più adatto". Ho respirato di sollievo per due ragioni: nessun vero serial killer all'orizzonte e, ancora più importante, nessuna ambientazione nella "mia" location. Io e il factotum svoltammo l'angolo proprio nel momento in cui una delle due voci diceva all'altra: "Solo un ultimo favore: prova a infilarti questa e fammi vedere che effetto farebbe il tuo corpo con la tunica se fosse ritrovato qui". Ci si pararono davanti due figure, una delle quali con una tunica bianca in mano. Quando ci videro fecero due "O" perfette con la bocca. Poi una disse all'altra: "Torniamo nella Cloaca". E scomparvero. Ho riconosciuto Laura quando ho visto la sua foto su Facebook e lei, messaggiando, mi disse che quel giorno avevano raggiunto i cunicoli di San Clemente partendo dalla Cloaca Maxima. E, leggendo il loro libro - "Fiume pagano" - ho capito che alla fine aveva prevalso la scelta del Tevere. Un lungo nastro biondo che accarezza Roma catturandone i segreti e i respiri più nascosti. 

Lauraetlory:
Che colpo ci siamo prese quel giorno. Non tanto per la notissima claustrofobia di Loredana (la metà oscura del duo, quella che appare tanto raramente da far temere che in realtà non esista ma sia un parto della mia mente malata), quanto per il terrore che la stessa nostra idea si fosse accesa anche nella testa riccioluta e negli occhi pungenti di quella tipa apparsa nel buio. Con tanti posti che ci sono a Roma, con tante suggestioni possibili, proprio nei sotterranei della Cloaca Maxima doveva condurci la reciproca, perversa fantasia? Quello con Patrizia è stato un incontro fatale perché non ci era mai capitato di leggere un libro (il suo “Veritas”), guardarci negli occhi (io e Lory) e dire all’unisono: “Ma sembra scritto da noi”. Perché il sapore di Roma lo abbiamo distillato allo stesso modo, lasciandoci guidare dalla comune passione per la storia, per l’archeologia, per i misteri che si nascondono dietro ogni sanpietrino romano. A lei non lo abbiamo detto, ma la prima idea riguardo “Fiume pagano” prendeva il via dai culti mitraici. Poi ci piacque di più l’idea di Vesta, dea primigenia mai realmente raffigurata se non attraverso il fuoco sacro. Così l’abbiamo scampata dal trovarci a far a capelli sul mitreo di San Clemente e siamo diventate amiche. Un po’ a pelle, un po’ perché ci siamo innamorate del vice-questore Arlia. E a questo proposito abbiamo due domande: perché un napoletano a Roma? Arlia ha una stazza di tutto rispetto ma insisti molto sull’agilità dei suoi movimenti, specialmente quando si gira su se stesso. Sembrava descrivessi qualcuno che conosci. E’ così?

Pat:rizia:
Giusto, che ci fa un napoletano a Roma? Napoletani e romani sembrerebbero, a prima vista, tutto sommato affini: entrambi popoli socievoli, espansivi, passionali, con quel tanto di spacconeria guascona che non guasta e una grossa dose di teatralità: non a caso i più grandi attori di cinema e di teatro sono stati romani e napoletani. Personalmente preferisco i secondi, più creativi nell’escogitare espedienti per sottrarsi alle regole (e ne hanno ben donde, visto che in epoca moderna sono stati derubati e massacrati da chi quelle regole ha imposto). Pasolini disse che i napoletani sono una tribù che ha deciso di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia la modernità e restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili. Per questo ho voluto che il vicequestore Michele Arlia, protagonista di “Veritas”, fosse un napoletano estremamente recalcitrante di fronte alle regole, ma costretto dalla sua professione ad adattarvisi. Non solo: ma anche nella città che è il centro del potere, ma la cui popolazione ha elaborato espedienti diversi da quelli partenopei per aggirare il potere stesso. E’ vero, Arlia è ispirato a una persona che conosco e che al pari di lui è dotato di un intuito che, per sua stessa natura, non si avvale della logica e che preferisce far uso di una sorta di vista laterale che gli fa cogliere i particolari prima ancora dell’essenza centrale del problema.
A questo punto il vicequestore Arlia gioca di rimpallo e chiede: i protagonisti di “Fiume pagano”, il maresciallo Vergassola e il giornalista Rossini sembrano in qualche modo integrarsi. Riflessivo e metodico il primo, cinico e “arruffato” il secondo. Vi siete ispirate a qualcuno? In qualche modo Vergassola e Rossini riflettono Loredana e Laura (non necessariamente in quest’ordine)? Il nome di Rossini, Nemo, a cosa si deve? 


Lauraetlory:
Anche Quirino Vergassola e Nemo Rossini in qualche modo esistono realmente. Ma si tratta di ibridi, creature modello Frankenstein messe insieme con parti assortite di amici e suggestioni personali. Il maresciallo luogotenente Vergassola ha la struttura portante di un nostro amico dei tempi del liceo, ma raccoglie in sé la volontà di creare un investigatore che fosse fuori degli schemi classici. Non ha il potere di un alto graduato, non è un fico, tantomeno uno stronca donne, non sventola pistoloni. Il giornalista è più composito: lo abbiamo immaginato con la faccia bonaria di Patrizio Roversi (al punto che spaccia autografi farlocchi da turista per caso), la fisicità di un nostro amico cronista e il nome che gioca sull’assonanza con le generalità di un altro nostro carissimo amico. Poi ci siamo rese conto che Nemo rendeva perfettamente l’idea: Rossini ha rinunciato alla carriera, a una casa, a una famiglia. Vive per le notizie e di tutto il resto poco gli importa. In fondo si sente un signor nessuno ed è contento così. In lui abbiamo voluto trasporre un certo modo di essere tipicamente romano: una profonda empatia col mondo, travestita da cinismo. Ma nel gioco dei rimandi Quirino e Nemo non sono nostri alter ego. E veniamo ai comprimari. Noi abbiamo dato voce ai clochard romani, tu hai creato un gran bel personaggio nella trans brasiliana. Rimando alle cronache recenti? E la penuria di personaggi femminili è una scelta oppure la storia ha scelto per te?

Patrizia:
Nemo Rossini con la faccia di Patrizio Roversi mi sembra un’idea impagabile, quasi un ossimoro. In realtà, comunque, una certa idea sulla derivazione latina del nome di Rossini e sulla sua applicazione alla sua esistenza me l’ero già fatta. La trans brasiliana in “Veritas” (Hector Garrano, in arte Giovanna) non segue ma anzi precede le cronache di questi tempi. In realtà mi sono ispirata a una persona che conosco, brasiliana, che pratica il mestiere più antico del mondo. E’ una creatura che riunisce quelle che considero doti peculiari dei brasiliani: esuberanza, joie de vivre, l’arte di colorare la vita anche con pastelli improbabili, un sorriso da opporre a qualunque circostanza.
Ma “Giovanna” (chiamiamola così) ha anche un profondo senso del dovere e del lecito: si prostituisce senza permesso di soggiorno, ma se si trovasse in dovere di denunciare qualcosa o qualcuno, non ci penserebbe un attimo a farlo, a prezzo dell’espulsione. Siete le prime a sottolineare i pochi personaggi femminili. Avete ragione. Indizio di camillerite? Forse gli uomini mi attraggono di più perché meno diretti e franchi – rispetto alle donne - nei loro atteggiamenti. Credo che la mente maschile offra maggior ricettacolo al torbido.
Il protagonista assoluto di “Fiume pagano” invece direi che sia proprio il biondo Tevere, che mi pare abbia ospitato anche una delle presentazioni del libro. Che fascino esercita su di voi questo fiume? Cosa rappresenta nella vostra quotidianità?
La cosa che più mi ha incuriosito è che i personaggi negativi del libro, i “cattivi”, in realtà sono mossi da input per così dire positivi. Sullo sfondo dei riti della dea Vesta, tentano di restituire un’altra dignità a Roma, che vedono maltrattata e offesa. E’ così che la vedete anche voi? 



Lauraetlory: 
Il biondo Tevere ha cantato la ninna-nanna a Loredana che, da romana doc, ha visto i natali praticamente sulle sue sponde. Normale che avessimo un occhio di riguardo per questo fiume che, a Roma, rappresenta un vero e proprio mondo a parte. Provate a scendere lungo gli argini in una normale giornata lavorativa, meglio se autunnale. Mentre in alto, oltre i muraglioni, la frenesia della metropoli ottiene il peggio dalla cittadinanza, appena si scendono le scale di marmo si entra in una dimensione totalmente diversa. Neanche i rumori hanno il coraggio di violare la voce eterna del fiume che scorre incassato, quasi imprigionato, eppure libero di essere “altro” da Roma. I ventisette ponti che lo sorvolano sono altrettanti punti di osservazione su un diverso ritmo del tempo, su odori, rumori e sapori che rimandano alla Roma delle origini. Il Tevere è la madre di questa città, il cordone ombelicale mai reciso, il motivo stesso dell’esistenza di Roma. Ce ne dimentichiamo. Oseremmo dire che la maggior parte dei romani sia quasi ignaro dell’esistenza del fiume che fa sentire la propria voce solo quando si ingrossa di pioggia e sale a dare un’occhiata più ravvicinata all’asfalto e allo smog. Ma lo spirito di Roma, quello spirito che abbiamo sentito aleggiare anche nel tuo “Veritas”, è lì, tra quegli argini. Riportarlo alla vita è lo scopo che abbiamo dato ai nostri “cattivi”, perché Roma avrebbe bisogno di ritrovare la propria identità, di riappropriarsi della propria memoria per quanto sconfinata possa essere. C’è in corso una pericolosa deriva verso la cancellazione del passato e crediamo che “Veritas” sia anch’esso un tentativo di svelare ai lettori ciò che si nasconde nelle viscere materne della più femmina delle città. Gran parte del tuo romanzo punta al sottosuolo ed è una scelta che, a nostro giudizio, travalica il gusto per l’esplorazione all’Indiana Jones, per sfociare nel recupero del sostrato più autentico di Roma. Abbiamo ragione? E la scelta dei culti mitraici, che molti vedono all’origine della figura stessa del Cristo, non è forse il corrispettivo dei nostri neopagani intenti a nutrire il fuoco di Vesta? 

Patrizia:
Assolutamente vero: penso che la storia autentica di Roma tragga origine più dal culto di Vesta e da quelli mitraici che da quelli più “addomesticati” del cristianesimo o del cattolicesimo. Senza nulla togliere ai valori espressi da questi ultimi.
Ed è altrettanto vero che la storia e la narrazione di Roma poggino sul suo sostrato speculare, chilometri di città che rispecchiano e percorrono la superficie anche se imbottigliati nel sottosuolo.
Penso che questo accada anche alle persone: siamo quello che è sedimentato dentro di noi e magari è invisibile agli occhi, il nostro lato arcano. E trovo che al pari dei personaggi che si agitano sulla scena di “Veritas”, anche quelli di “Fiume pagano” non siano quello che sembrano.
E adesso fuoco di fila finale. Di “Fiume pagano” ho apprezzato molto anche la ricostruzione storica: avete avuto modo di contattare seguaci di culti neopagani che si agitano nella Capitale e non solo? Nel libro parlate della “fine del libero pensiero” attuata da Santa Romana Chiesa. In cosa consisteva il libero pensiero nella Roma imperiale? Il “Fiume pagano” si snoda lungo la città sormontato da 27 ponti: quale ponte secondo voi è più rappresentativo della storia di Roma? A mio parere, il vostro libro è un condensato di mistero, storia, quotidianità, suspence, varia umanità, atmosfere inquietanti…in due parole: da leggere. Ma come siete incappate nello spunto? 

Lauraetlory: 
 Partiamo dalla fine: è stato lo spunto a venire a noi, come spesso accade. Eravamo a caccia, bighellonavamo random in Rete, lasciando che Google ci portasse dove indicava il chip. E ci è apparso il rituale degli Argei: fantocci detti shirpea avvolti in candide tuniche e gettati da ponte Sublicio con una spruzzata di mola salsa. Un evidente simbologia, un sacrificio umano ripulito e perpetuato. Un nutrimento per il fiume. Ci siamo guardate: eureka! Tutto partiva da ponte Sublicio che oggi non esiste più (nella forma originale) ma c’è ancora. Il più antico ponte di Roma, costruito nel 642 avanti Cristo. Eureka alla seconda! Da lì il sassolino è diventato valanga. Abbiamo scoperto siti di associazioni neopagane, abbiamo letto i loro articoli, i loro manifesti. Siamo venute a sapere che il fuoco di Vesta, spento d’imperio nel 391 dopo Cristo, è stato riacceso nel 2009 in nome della libertà di culto e di pensiero. Roma rispettava le altre religioni al punto da lasciarsene permeare in profondità aggiungendo divinità e culti nel proprio pantheon. E questo si traduceva in una permeabilità alle culture, alle tradizioni, alla filosofia degli “altri” che da “loro” passavano presto al “noi”. Gli stessi imperatori finirono presto di essere romani de’ Roma per diventare cittadini di tutto l’Impero. Questa capacità venne escissa chirurgicamente dall’avvento del Cristianesimo che non accettava niente e nessuno al di fuori dei convertiti. E le conversioni spesso furono tutt’altro che sincere: da quella tutta politica di Costantino a quelle imposte con la violenza al popolino che nascondeva l’altare con i Lari negli angoli più riposti delle case.
Sono stati questi i nostri spunti. E per alleggerire il discorso viriamo su uno spunto di “Veritas” che nuoce gravemente alla dieta di chi lo legge: le splendide ricette citate ogni volta che Arlia si siede a tavola. Sappiamo che quel ristorante esiste nella realtà. Ma come lo hai scoperto? E fino a che punto vivere la città non diversamente dai personaggi di cui si narra rende la storia più fruibile ai lettori?

Patrizia:

Arlia è decisamente sovrappeso – per non dir di peggio – e assolutamente refrattario e recalcitrante rispetto alla dieta impostagli dal medico. Ci voleva un ristorante sfizioso e soprattutto partenopeo, in modo da stuzzicargli ricordi di un palato giovane. Vagando in Rete, ha fatto capolino questo ristorante – L’Ortica – definito l’unico a proporre una cucina genuinamente napoletana. Ho preso contatti con il proprietario, Vittorio Virno, chiedendogli se potevo “adottare” lui e il suo locale per inserirli nel libro. Vittorio mi ha invitato a visitare il ristorante ed entrambi si sono rivelati “vincenti” e cioè ricchi di sapori evocati concretamente ma anche a livello di ricordi particolarmente divertenti. Basti pensare che Vittorio è stato protagonista, insieme a Ugo Tognazzi, di molte disfide gastronomiche, con una giuria composta di molte personalità del mondo del cinema, che sono quasi ospiti fisse all’Ortica.
Per rispondere alla domanda successiva, sì. Quando leggo di ambientazioni di scene in posti facilmente raggiungibili, mi piace muovermi con i personaggi che li abitano o li percorrono. E ne approfitto per andare nelle location. Ad esempio, ho molto apprezzato l’ambientazione di alcuni personaggi di “Fiume pagano” in piazza degli Zingari, a Roma. Approfittando di un crepuscolo di inizio ottobre, sono andata a visitarla e, complice anche la luce particolare di fine giornata, di averla trovata quasi “fatata”. Molto bella anche l’edicola rosata settecentesca che si affaccia sulla piazza. Quando leggo (e a volte un libro lo leggo e rileggo più volte) mi piace fare miei i personaggi e contestualizzare una pagina in un ambiente reale. A maggior ragione questo mi accade quando scrivo. L’unico punto debole di tutto ciò è che il ristorante L’Ortica rimane per me “da guardare ma non toccare”, visto che, per motivi religiosi, ho dovuto declinare i numerosi inviti di Vittorio. Magari in un’altra vita… 


Lauraetlory:

Grazie Patrizia e chissà che prima o poi non si riesca ad organizzare un incontro cultural-gastronomico tra le tre autrici (io, te e Lory) e i tre personaggi (Arlia, Vergassola e quel rompino di Nemo Rossini) per parlare di storie e piatti. Rigorosamente romani, ça va sans dir. 

Patrizia:

Grazie a voi per la chiacchierata ancora virtuale, ma spero per poco. Per quanto riguarda la tavolata tra amici… uhm… Arlia mi ha fatto rudemente (come suo solito) sapere che, per par condicio con Vergassola e Rossini, il menu dovrà comprendere anche piatti partenopei. Altrimenti nisba. Bisogna aver pazienza: è fatto così. 



Lauraetlory hanno detto: 
Siamo nate a Roma quando il mondo tirava un sospiro di sollievo dopo la fifa blu per la crisi dei missili a Cuba, ignaro che stava per assistere alla fine di due grandi uomini: J.F. Kennedy e papa Giovanni XXIII. Siamo cresciute tra sbarchi sulla Luna, contestazioni studentesche e anni di piombo. Sarà per questo che amiamo tanto la storia? Abbiamo cominciato a scrivere sui banchi di scuola, facendo credere ai prof che stavamo prendendo appunti. Ci siamo laureate insieme. Ci siamo supportate a vicenda nei passi fondamentali della vita, ma soprattutto è insieme che portiamo avanti la nostra passione: scrivere, scrivere, scrivere.
Fiume pagano è il nostro settimo romanzo. 
http://lauraetlory.blogspot.com 
http://lestoriedilauraetlory.slinder.com 
www.lauracostantini.it

Patrizia ha detto: 
Sono nata a Roma nell’ultimo degli anni Cinquanta. Ho iniziato a leggere e scrivere all’età di due anni e mezzo grazie ad Alberto Manzi e al suo irripetibile “Non è mai troppo tardi”. E neanche troppo presto, aggiungo io: ancora mi mancano quei due primi anni e mezzo senza un Topolino tra le mani. Ero molto giovane quando ho letto il primo romanzo di Agata Christie, “L’assassinio di Roger Ackroyd” e da allora è in corso un amore che non ha mai conosciuto cedimenti: quello per il genere thriller o giallo che dir si voglia. Ciò che apprezzo di più dello scrivere è quel preciso momento in cui un piccolo embrione si fa strada nella mente e comincia a pretendere informazioni e ricerche, ricompensando con fiumi di adrenalina.



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