È il vento, così insistentemente enfatizzato sin dal principio del film, a spingere i protagonisti verso il loro destino. Odds against Tomorrow del 1959 esprime nell’originale il senso di condanna al fallimento che pervade una storia che Robert Wise diresse da un romanzo di William McGivern (autore anche di parte della sceneggiatura). Strategia di una rapina parla sempre di un ‘hold –up’ in cui la destrezza dovrebbe superare la violenza. Il condizionale è d’obbligo perché, malgrado gli sforzi profusi, caso e manchevolezze personali degli esecutori porteranno fuoco e fiamme. Dave, anziano poliziotto scacciato dal corpo per indegnità, vive in un albergo di New York con il suo cane, sogna il colpo di una vita e avrebbe messo anche a punto un piano perfetto, almeno nelle sue intenzioni. L’obiettivo è una banca di Melton, tra NY e Albany, un posto tranquillo che, dopo le sei di sera, si richiude in se stesso. Gli impiegati terminano i conti, una sola guardia -con l’artrite e sulla soglia della pensione - un garzone nero che porta i caffè, immancabile alla stessa ora. Per mettere le mani su un bottino di 50.000 dollari Dave (Ed Bagley) ha pensato di far ricorso non a dei professionisti ma a due disgraziati che, sulle prime, proprio non ne vorrebbero sapere.
Eppure, per diversi motivi sono (o sembrano) perfetti per i loro ruoli. Earle è un reduce di guerra sufficientemente violento e duro da venir buono nel momento in cui bisognerà mettere in atto il colpo. Peccato che sia un perdigiorno, un mantenuto, roso nell’orgoglio di dover vivere alle spalle della fidanzata Shelly Winters che farebbe di tutto per lui ed è sin troppo mamma. Lui si sente umiliato da quei soldi prestati come un’elemosina, provoca risse nei bar e consuma il tradimento con una vicina in cerca di emozioni forti proprio sotto il tetto di Shelly. Alla fine vuol tornare in Oklahoma da dove è fuggito. Johnny è un nero dai modi eleganti e la voce potente di Harry Belafonte. Divorziato, convive con una cantante ma vorrebbe riconquistare la moglie e riavere sua figlia. Peccato che sia schiavo del vizio del gioco e sommerso dai debiti. Alla fine Earle e John si vedono costretti ad accettare la parte che Dave ha scritto per loro. Problema principale. Earle è un razzista che proprio non sa tenere la bocca chiusa ed John ha il sangue che ribolle nelle vene. Difficoltà non da poco se si considera che il piano richiede freddezza, precisione e perfetto accordo nell’esecuzione. Decisamente è l’ultima parte del film a essere la migliore. Ormai conosciamo le caratteristiche psicologiche dei tre rapinatori che oscillano sempre tra bene e male. Non sono personaggi particolarmente accattivanti ma, nella loro ambiguità morale, sono verosimili. Quasi speriamo che possano farcela a cominciare una nuova vita. Ma è ovvio sin dalla lunga inquadrature di John che fissa uno stagno di una discarica prima del colpo che i loro sogni sono destinati a trasformarsi in fumo. L’immagine della bambola rotta che emerge tra i rifiuti è già un brutto presagio. I momenti più interessanti sono proprio quelli che precedono il colpo. ‘È l’attesa che mi uccide’ confessa il nervosissimo Earle (cui un magnifico Robert Ryan conferisce il giusto grado di frustrazione e rabbia). Piccoli particolari minano il meccanismo. La vecchia auto con il motore truccato viene notata da un giovane benzinaio, John viene fermato nel paesino come testimone di un incidente e ben inquadrato dagli occhi sospettosi di uno sbirro. Le ore prima del colpo trascorrono in solitudine con i tre protagonisti perseguitati da pensieri negativi e tic. Poi calano le ombre e l’azione comincia. Sfiducia e ostilità portano i tre a battibeccarsi sui ruoli da sostenere, sul possesso delle chiavi per la fuga ma il piano procede. Piano, in effetti, non a prova di bomba perché uno sbirro nota un movimento sospetto. Da lì in avanti accade l’imprevedibile. Si sparano i primi colpi e Dave cade ucciso a colpi di pistola alla schiena. Purtroppo non solo ha con sé la refurtiva ma anche le chiavi della macchina. John ed Earle rispondono al fuoco ma, ormai sconvolti dal peso del fallimento, rivolgono contro loro stessi la rabbia. Finiscono ad affrontarsi proprio come in un western in un duello in cima a un silo di gas. Basta una scintilla e le loro aspirazioni terminano in una letale esplosione. Come dice il poliziotto nel finale ‘bianco o nero, che importanza ha?’ il guaio è fatto e ancora una volta l’America degli anni 50 si configura in un ritratto in bianco e nero, fatto disperanze e disillusioni. Tra i notevoli spunti descrittivi ambientali merita di certo menzione il locale jazz dove Belafonte si esibisce in un paio di numeri musicali chenon stonano, anzi conferiscono emozione alla vicenda.
Eppure, per diversi motivi sono (o sembrano) perfetti per i loro ruoli. Earle è un reduce di guerra sufficientemente violento e duro da venir buono nel momento in cui bisognerà mettere in atto il colpo. Peccato che sia un perdigiorno, un mantenuto, roso nell’orgoglio di dover vivere alle spalle della fidanzata Shelly Winters che farebbe di tutto per lui ed è sin troppo mamma. Lui si sente umiliato da quei soldi prestati come un’elemosina, provoca risse nei bar e consuma il tradimento con una vicina in cerca di emozioni forti proprio sotto il tetto di Shelly. Alla fine vuol tornare in Oklahoma da dove è fuggito. Johnny è un nero dai modi eleganti e la voce potente di Harry Belafonte. Divorziato, convive con una cantante ma vorrebbe riconquistare la moglie e riavere sua figlia. Peccato che sia schiavo del vizio del gioco e sommerso dai debiti. Alla fine Earle e John si vedono costretti ad accettare la parte che Dave ha scritto per loro. Problema principale. Earle è un razzista che proprio non sa tenere la bocca chiusa ed John ha il sangue che ribolle nelle vene. Difficoltà non da poco se si considera che il piano richiede freddezza, precisione e perfetto accordo nell’esecuzione. Decisamente è l’ultima parte del film a essere la migliore. Ormai conosciamo le caratteristiche psicologiche dei tre rapinatori che oscillano sempre tra bene e male. Non sono personaggi particolarmente accattivanti ma, nella loro ambiguità morale, sono verosimili. Quasi speriamo che possano farcela a cominciare una nuova vita. Ma è ovvio sin dalla lunga inquadrature di John che fissa uno stagno di una discarica prima del colpo che i loro sogni sono destinati a trasformarsi in fumo. L’immagine della bambola rotta che emerge tra i rifiuti è già un brutto presagio. I momenti più interessanti sono proprio quelli che precedono il colpo. ‘È l’attesa che mi uccide’ confessa il nervosissimo Earle (cui un magnifico Robert Ryan conferisce il giusto grado di frustrazione e rabbia). Piccoli particolari minano il meccanismo. La vecchia auto con il motore truccato viene notata da un giovane benzinaio, John viene fermato nel paesino come testimone di un incidente e ben inquadrato dagli occhi sospettosi di uno sbirro. Le ore prima del colpo trascorrono in solitudine con i tre protagonisti perseguitati da pensieri negativi e tic. Poi calano le ombre e l’azione comincia. Sfiducia e ostilità portano i tre a battibeccarsi sui ruoli da sostenere, sul possesso delle chiavi per la fuga ma il piano procede. Piano, in effetti, non a prova di bomba perché uno sbirro nota un movimento sospetto. Da lì in avanti accade l’imprevedibile. Si sparano i primi colpi e Dave cade ucciso a colpi di pistola alla schiena. Purtroppo non solo ha con sé la refurtiva ma anche le chiavi della macchina. John ed Earle rispondono al fuoco ma, ormai sconvolti dal peso del fallimento, rivolgono contro loro stessi la rabbia. Finiscono ad affrontarsi proprio come in un western in un duello in cima a un silo di gas. Basta una scintilla e le loro aspirazioni terminano in una letale esplosione. Come dice il poliziotto nel finale ‘bianco o nero, che importanza ha?’ il guaio è fatto e ancora una volta l’America degli anni 50 si configura in un ritratto in bianco e nero, fatto disperanze e disillusioni. Tra i notevoli spunti descrittivi ambientali merita di certo menzione il locale jazz dove Belafonte si esibisce in un paio di numeri musicali chenon stonano, anzi conferiscono emozione alla vicenda.
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